
Kobe, la legacy
- giuseppe domenico barba
- 26 gen
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 7 apr
Dopo 5 anni da quell'incredibile tragedia che ci ha strappato il cuore dal petto, siamo ancora lì a ripensarci in maniera sgomenta. C'è chi ancora non riesce a guardare altro materiale se non i soliti highlights proposti dallo scrolling quotidiano (che ci danno l'impressioneche sia ancora qui tra noi). Niente documentari, niente tributi, niente interviste, niente di niente dal giorno del funerale (oddio). Un'elaborazione del lutto lentissima, chissà perché poi, forse dovremmo seguire il consiglio di Baricco e imparare a lasciar andare, semplicemente. Lasciamo andare le aspettative che ci eravamo fatti per la vita di una persona che, soprattutto in Italia, abbiamo seguito dalla culla alla gloria.
Tralasciando tutto ciò che già sappiamo e abbiamo sentito del suo gioco, il suo carattere, Shaq ecc. Ecc. Parliamo della legacy di Kobe, e della possibilità di estrapolare veramente un messaggio dall'esistenza di questo atleta tanto iconico.
Dal 26 gennaio 2020 pare che tutta la complessità della figura di Kobe Bryant, si possa tranquillamente esprimere con l'espressione Mamba Mentality. Diventato così inflazionato da perdere parte della sua carica, probabilmente per la sua immediatezza e la sua efficacia nell'andare oltre il semplice nome e cognome, nel riassumere i tratti salienti del suo profilo. Assistiamo passivamente ad una graduale strumentalizzazione, un marketing esasperante e una conseguente semplificazione della figura di Bryant, che non gli rende giustizia e che storpia il concetto originale esposto e approfondito nell'omonimo libro del 2018.
Non è raro vedere qualche pigro influencer sovrappeso che ti parla di mamba mentality dopo aver giocato a qualche videogame per 2/3 notti nell'ulltima setttimana. Gente a cui Kobe non avrebbe mai passato la palla, da cui si sarebbe fatto odiare; ma per lui essere un leader significa essere all'occorrenza cattivo, ed esserlo da solo.
Come giustamente detto nella nostra intervista col fondatore de La giornata tipo, se vogliamo parlare di Mamba Mentality ad un giovane cestista, non possiamo dirgli che l'unico modo per diventare un professionista sia alzarsi alle 3 del mattino e fare 5000 tiri entro le 8 per 25 anni.

Non è un modello perseguibile nemmeno per chi è già un professionista e non ha un certo talento o certe caratteristiche fisiche, combo rarissima.
Sicuramente possiamo ricavare e trasmettere un insegnamento sull'auto disciplina e sul miglioramento personale, correlati ad una sana ambizione, fattori che ci possono aiutare a raggiungere i propri obiettivi personali.
Ma forse il miglior insegnamento lasciatoci in eredità, prima che Nike lo trasformasse in mamba, viene da uno spot Adidas di fine anni 90. Un Kobe 18enne, rookie dei Lakers, scacciava dei mostri che rappresentavano le critiche piovutegli addosso all'inizio della sua carriera, sul fatto che fosse troppo giovane, troppo presuntuoso, inadeguato per quel livello, arrivato in NBA troppo acerbo perché preso direttamente dalla high school, senza passare dal college. Lui mette tutti a tacere segnando un canestro e recitando in italiano uno slogan che vale una carriera: "se non credi in te stesso, chi ci crederà?" Concetto che punta sulla consapevolezza di sé stessi, sulla convinzione dei propri mezzi e del proprio lavoro. Parole che hanno la forza del mantra da ripetersi nei giorni in cui il sole non è luminoso come quello di Reggio Calabria o di Los Angeles.
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